L'Irlanda è tutta in piedi
24/03/2009
«La recessione è finita, possiamo fare festa» cantavano gli irlandesi sabato sera per le strade di Dublino. E pazienza se la disoccupazione è tornata a livelli storici e l'Irlanda è considerata dalle agenzie di rating uno dei paesi più a rischio del panorama economico internazionale. Per una sera si può anche dimenticare che nelle ultime settimane il terrorismo è tornato a farsi vivo nell'Ulster: oggi c'è un'Irlanda unita che vince. È quella del rugby, Nord e Sud del paese insieme, cattolici e protestati in campo con la stessa maglia, un'anomalia mai messa in discussione negli oltre cent'anni di storia del gioco ovale.
Una squadra che supera i confini politici e le divisioni territoriali: per celebrarne l'unità si è dovuto scrivere un inno ad hoc, “Ireland's call”, visto che “A soldier's song” è quello ufficiale dell'Eire mentre in maglia verde giocano anche “the Ulstermen”, gli uomini del nord del paese: Stephen Ferris, Rory Best, Tom Court, Paddy Wallace. «Ireland, Ireland together standing tall», Irlanda, Irlanda insieme svettiamo alti, è il refrain della canzone scritta apposta per il rugby nel 1995. A Dublino viene suonata dopo l'inno della Repubblica irlandese, unico paese ad avere diritto a due melodie. All'estero non si può fare e allora basta “Ireland's cal”.
E ieri, nel momento in cui la crisi economica taglia gli artigli dell'ormai ex «tigre celtica», gli irlandesi sono tornati a vincere il «Sei Nazioni», non accadeva dal 1985. Soprattutto hanno conquistato il Grande Slam, ossia la vittoria, l'en plein in tutte le partite, un traguardo ottenuto dai verdi una sola volta nella loro storia, nel 1948, anni da “Le generi di Angela” di Frank McCourt quando l'Irlanda era il paese più povero d'Europa e nessuno sognava altri trionfi che non fossero quelli sportivi. Oggi che gli irlandesi scoprono il bluff del Grande Slam finanziario, quello che li aveva illusi di essere diventati anche loro, tutto d'un colpo ricchi, si torna a far festa per il rugby e a cantare «The Fields of Athenray», una ballata struggente che da sempre accompagna le prestazioni delle squadre sportive irlandesi: parla di carestie e povertà, emigrazione e rivolte, ma anche di orgoglio e amore per il proprio paese. Il paradosso del rugby d'Irlanda era che da anni l'isola vantava alcune delle formazioni di club più forti del mondo, il Munster (due volte campione d'Europa, nel 2006 e 2008), l'Ulster (vincitore della coppa dei campioni nel 1999), il Leinster, che quest'anno ha vinto la Magners League, il torneo delle nazioni celtiche, mentre la nazionale, pur imbottita di campioni, inciampava sempre all'ultimo ostacolo. Era stato così anche nel 2007, quando conquistò quattro vittorie su cinque: peccato che alla prima partita del torneo si era fatta fregare dalla Francia, all'ultimo minuto, al Croke Park. Già, perché c'è anche la storia dello stadio a impreziosire un traguardo diventato subito storico.
Dal 2007, e ancora per un paio di stagioni, la nazionale di rugby irlandese gioca le proprie partite interne al Croke Park, il vecchio Lansdowne Road è in ristrutturazione, anzi in ricostruzione (rinascerà con uno di quegli orribili nomi presi a prestito dagli sponsor: Aviva Stadium) e pertanto in questo periodo è stato necessario trasferirsi nel tempio degli sport gaelici. Quello costruito con le macerie dell'ufficio postale di Dublino, distrutto dalle cannonate inglesi nella rivolta di Pasqua del 1916, e poi consacrato dal sangue della prima “Bloody Sunday”: si giocava Dublino-Tipperary, era il mese di gennaio del 1920 e i «Black and Tans», truppe al servizio di Sua Maestà, entrarono sul terreno di gioco e spararono sulla folla, ci furono decine di morti, compreso il capitano del Tipperary, Michael Hogan, cui è dedicata una tribuna dello stadio. Per questo al “Croke Park”, di proprietà della GAA (Gaelic Athletic Association), sono vietati gli sport inglesi e il rugby lo è più di tutti gli altri. Per ospitare la partite del «Sei Nazioni», insomma, c'è voluta una deroga particolare, messa ai voti tra i membri della GAA. Fu deciso per il sì, ma senza l'unanimità.
Certe storie fanno fatica ad essere dimenticate. Così, in attesa che il rugby torni all'Aviva Stadium, c'è anche il marchio del “Croke Park” in questo Grande Slam che ha chiuso la settimana di San Patrizio, la festa più sentita d'Irlanda, quest'anno particolarmente dimessa: pub mezzi vuoti, pochi euro nelle tasche della gente. Perché la crisi c'è e morde tutti: nonostante i trionfi del Munster e dei Leinster, che a Pasqua disputeranno (rispettivamente contro i gallese degli Ospreys e gli Harlequins inglesi) i quarti di finale dell'Heineken Cup (la Champions League ovale) anche il rugby irlandese in Irlanda subisce la crisi. Ai giocatori di interesse nazionale è stato chiesto un ridimensionamento dei guadagni anche di cinque volte rispetto al passato. Uno come Gordon D'Arcy, miglior giocatore del «Sei Nazioni» 2004, tornato in nazionale quest'anno dopo una lunga assenza per un infortunio a un braccio, si deve accontentare di uno stipendio di 60 mila Euro, altro che guadagni miliardari. E agli atleti più anziani è stato chiesto di andare in pensione anticipitata per ridurre i budget dei club. Una proposta, alla fine, che tutti hanno dovuto accettare nonostante le proteste dell'Irupa, l'associazione di giocatori professionisti”.
“Godetevi questo momento” – ha detto Declan Kidney, l'allenatore che in otto mesi ha trasformato una truppa delusa e che pareva avviata al declino in una squadra capace di un trionfo leggendario. A Cardiff, per la sfida finale (successo dell'Irlanda sul Galles al fotofinish, 17-15), c'era anche Jack Kyle, apertura della squadra che aveva conquistato il Grande Slam del 1948, quando le nazionali di rugby si riunivano la sera prima del match, non disponevano di un vero allenatore e la strategia di oggi era sintetizzata spesso in una pacca sulle spalle un messaggio semplice: «Vediamo di fare il nostro meglio». Alla domanda se la squadra del 1948 fosse meglio di quella di adesso, Kyle, classe 1926, ha risposto: «Credo sarebbe una partita molto combattuta. Anche se noi oggi abbiamo tutti più di ottant'anni e parecchi di noi non ci sono più». La maglia del pilone JC Daly che sessantun anni fa segnò la meta decisiva, anche allora al Galles, finì strappata dai tifosi, dopo la partita, e dispersa per tutta l'Irlanda: ognuno ne portò a casa un frammento-ricordo. Oggi in ogni casa sono entrate le immagine Tv della meta di Brian O'Driscoll (decisa alla moviola dall'arbitro addetto rivedere al video le azioni contestate) e di questo Grande Slam degli anni duemila si faranno DVD e si scriveranno libri. Magari uno si chiamerà: il rugby al tempo della crisi. Gli irlandesi sono campioni di uno e dell'altra.
fonte: "L'unità.it"
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